Lo stereotipo dello scontro di religioni
Il Comitato “Giornalismo & Tradizioni religiose” coinvolge giornalisti, istituzioni ed esponenti delle diverse realtà religiose (cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddisti, ecc.) per favorire la comprensione del fattore religioso nel contesto sociale e nell’opinione pubblica.
Il Gruppo è coordinato dalla Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce, dal Centro Studi sul Medio Oriente (Cemo) e dall’Associazione Iscom. Il 18 dicembre 2019 è stato organizzato a Roma un incontro con Alberto Zanconato, Capo servizio Redazione Internazionale dell’Agenzia Ansa. Zanconato è stato corrispondente a Teheran (1994-1997 e 2001-2011), Tokyo (1997-2001) e Beirut (2011-2018). Ha scritto ‘L’Iran oltre l’Iran. Realtà e miti di un paese visto da dentro’ (2016, seconda edizione ampliata e aggiornata 2017) e ‘Khomeini. Il rivoluzionario di Dio’ (2018).
Qual è la percezione diffusa del rapporto tra le tre grandi religioni?
Se focalizziamo l’attenzione sul rapporto tra Islam e Occidente, la percezione, a livello mediatico ma spesso anche politico, è quella dello scontro tra due universi.Si tratta però di uno stereotipo. I dati dimostrano che nel mondo del dopo 11 settembre 2001 il terrorismo islamico ha preso di mira i Paesi musulmani più dell’Occidente.
Secondo i dati del Terrorism Index pubblicato ogni anno dall’Institute for Politics and Peace di Sydney, dal 2002 al 2018 i morti per terrorismo in Europa e nel Nord America sono stati l’1,1% del totale mondiale, contro il 42% del Medio Oriente e Nord Africa, il 30% dell’Asia meridionale (con Stati islamici molto popolosi come il Pakistan e il Bangladesh, o con una forte presenza islamica come l’India), e il 20% dell’Africa subsahariana, che presenta la stessa realtà.
Ancora nel 2018 il 73% delle vittime totali del terrorismo si registrano in quattro Paesi islamici (Afghanistan, Iraq, Somalia e Siria) e in uno a maggioranza islamica (Nigeria). Il terrorismo come attacco al mondo cristiano è dunque uno stereotipo cavalcato per interessi di natura geopolitica ed economica. Ciò non toglie che le minoranze cristiane si siano sentite particolarmente vulnerabili nella bufera che negli ultimi decenni ha sconvolto il Medio Oriente – cominciata con l’invasione americana dell’Iraq, nel 2003 – e che chi ha potuto abbia preferito andarsene, per raggiungere l’Europa, gli Stati Uniti, il Canada.
La regione rischia così di cambiare radicalmente e diventare più povera anche dal punto di vista culturale, visto che queste sono tra le culle delle più antiche comunità cristiane. Ho parlato con molti cristiani che negli ultimi anni sono arrivati in Libano dopo essere fuggiti dall’Iraq e dalla Siria. Specie quelli del nord dell’Iraq, nella Piana di Ninive, che un giorno si sono trovati tracciata sulla porta la lettera ‘N’ di Nazareno. Un cristiano, appunto, la cui casa può essere impunemente attaccata.
Nasser Jebbo, un profugo fuggito con la famiglia e quella del fratello da Qaraqosh, occupata dalle milizie dell’Isis nell’estate del 2014, già da diverso tempo prima dell’arrivo dell’Isis le cose per i cristiani avevano cominciato a mettersi male. I Jebbo ricordano che dopo la caduta di Saddam, nel 2003, a poco a poco erano cresciute le pressioni perché le donne cristiane si coprissero il capo quando uscivano.
Già prima che il ’Califfato’ apparisse sulla scena, oltre la metà del milione e mezzo di cristiani che vivevano in Iraq aveva lasciato il Paese.
Un esempio seguito da molti cristiani siriani, presi di mira della milizie islamiste nel caos della guerra civile. Il caso più conosciuto è quello del padre gesuita romano Paolo Dall’Oglio, di cui non si sa più nulla da quando scomparve nell’estate del 2013 a Raqqa, controllata dall’Isis.
In Siria, secondo il nunzio apostolico a Damasco, cardinale Mario Zenari, la percentuale dei cristiani si è ridotta dal 6% della popolazione di prima del conflitto al 2% di oggi. In Egitto la vasta comunità dei cristiani copti – circa il 15% della popolazione – teme ancora l’instaurazione di un regime religioso islamico, dopo l’anno di governo del presidente Mohammad Morsi, dei Fratelli Musulmani, deposto con un colpo di Stato nel 2013 in seguito a massicce manifestazioni popolari.
Con l’abbattimento del sanguinario regime di Saddam Hussein, nel 2003, e molto di più con le Primavere Arabe del 2011, i media e molti politici occidentali si lasciarono trascinare dall’entusiasmo nella superficiale convinzione che i modelli occidentali di democrazia e libertà avrebbero preso automaticamente il posto dei sistemi tirannici abbattuti. Ma per quanto questi regimi siano oppressivi, bisogna sempre chiedersi cosa prenderà il loro posto una volta che saranno crollati.
Un problema che non si sono poste le potenze occidentali che negli ultimi 20 anni hanno rovesciato questi regimi, provocando sconvolgimenti e sofferenze non meno gravi di quelle patite dalle popolazioni – comprese quelle cristiane – sotto i sistemi precedenti. Comunque non bisogna mai dimenticare che i conflitti non sono provocati da uno scontro di religioni, bensì da mire concrete. Lo si capisce se si tiene presente che da un punto di vista storico la collaborazione tra i paesi occidentali e islamici, per interessi vari, è stata, ed è, molto frequente.
Basti pensare al sostegno dato dagli Usa ai Mojaheddin afghani nella guerra contro gli invasori sovietici negli anni ’80 del Novecento, e all’alleanza tra Impero Austro-Ungarico e Califfato turco nella Prima Guerra Mondiale. O, andando indietro nel tempo, all’alleanza tra la Francia e l’Impero Ottomano nel ‘500, contrapposta a quella tra gli Asburgo e l’Impero iraniano dei Safavidi.
Altro esempio è la posizione dell’Iran, Paese a stragrande maggioranza musulmana sciita retto da un regime religioso di questa confessione, che negli anni ’90, durante il conflitto tra lo sciita Azerbaigian e la cristiana Armenia, si schierò dalla parte di quest’ultimo Paese, soprattutto a causa dell’ostilità verso l’Azerbaigian dovuta alle dispute per la spartizione delle risorse petrolifere del Mar Caspio.
Meccanismi simili sono dietro alla nascita dell’Isis, un’organizzazione sunnita vista agli inizi con simpatia da parte della popolazione di questa confessione che era stata emarginata, repressa ed esposta alle vendette dopo la caduta del regime del sunnita Saddam Hussein, mentre i politici e le milizie sciite affermavano il loro strapotere anche grazie all’appoggio dell’Iran.
E proprio dalla cerchia vicina a Saddam provenivano i comandanti militari del ‘Califfato’ di Abu Bakr al Baghdadi, che nel giugno 2014 si impadronì in pochi giorni di circa un terzo del territorio iracheno. Poco dopo la figlia di Saddam, Raghad Hussein, disse chiaramente come stavano le cose: “In Iraq – affermò – stanno vincendo gli uomini di mio padre”.
Più politica, insomma, che religione. Anche l’ayatollah Rouhollah Khomeini, figura simbolo della rivoluzione iraniana del 1979, diede ampie dimostrazioni di come sapesse servirsi della religione per consolidare il potere della sua fazione a scapito delle altre che avevano partecipato alla sollevazione contro lo Shah. E per far questo non esitò a mettersi contro ed eliminare dalla scena pubblica altri leader religiosi sciiti di primo piano, come l’ayatollah Shariatmadari, contrario, come altri suoi pari, alla guida religiosa dello Stato. Per decenni lo Stato khomeinista iraniano è riuscito ad affermare il suo potere ed esercitare la sua influenza tra gli sciiti di vari Paesi della religione, in particolare l’Iraq e il Libano.
Anche se oggi tale ideologia confessionale appare in crisi proprio in questi Paesi, con masse di giovani sciiti che scendono nelle strade in manifestazioni di protesta contro la corruzione e le difficili condizioni economiche, insensibili al vecchio richiamo dell’Islam politico.
Se dunque sono gli interessi economici e geopolitici ad alimentare le guerre, perché perdura la percezione dello scontro di religioni?
C’è un’abitudine, una pigrizia mentale di cui sono colpevoli molti giornalisti e politici, di classificare le persone appartenenti a religioni e culture diverse secondo stereotipi. Come dice Edward Said, autore de ‘L’Orientalismo’, da noi si tende a vedere “L’Oriente come luogo di avventure. popolato da creature esotiche”.
Qualunque musulmano, dunque, viene identificato non come un essere umano con la sua storia, le sue esperienze, i dubbi, le paure, le gioie e i dolori, cioè come noi, ma semplicemente come un ‘essere islamico’ le cui uniche preoccupazioni sono quelle di andare in moschea a pregare, digiunare durante il Ramadan, evitare il vino e rispettare le regole rituali alla lettera.
Un atteggiamento mentale che appartiene a chi vede nell’Islam un pericolo, ma anche ai rappresentanti del cosiddetto ‘politicamente corretto’, che vorrebbero vietare i festeggiamenti per il Natale nelle scuole perché convinti che ne possano rimanere offesi gli alunni musulmani e i loro genitori.
Un atteggiamento che è frutto di ignoranza. Nei due decenni che ho passato in Medio Oriente non ho incontrato un solo musulmano che si sentisse offeso da alberi di Natale e presepi, e tutti mi hanno sempre fatto gli auguri per le feste. Inoltre, Gesù è uno dei più importanti profeti dell’Islam e Maria una figura tra le più venerate dai musulmani. Più volte nel Corano si fa anche cenno all’immacolata concezione.
Reza, un amico iraniano che non mancava di recitare quotidianamente le preghiere, non beveva alcol e osservava coscienziosamente il digiuno del Ramadan, mi chiese un giorno, mentre partivo per le vacanze in Italia, di portargli al mio ritorno le statuine del presepio, per suo figlio.
Diverse volte per Natale la televisione di Stato di Teheran ha trasmesso un film sulla Madonna di Lourdes, e i presidenti iraniani non mancano di fare gli auguri al Papa e a tutti i cristiani.
E comunque nessun dialogo può partire dal presupposto che è necessario rinunciare alla propria religione e alla propria cultura, perché ciò sarebbe un controsenso. Anziché preoccuparci di presepi e alberi di Natale faremmo meglio a concentrarci sulle motivazioni politiche che sono all’origine di buona parte della diffidenza nutrita dalle popolazioni orientali verso l’Occidente e il suo passato coloniale.
In una qualunque strada del Cairo, di Baghdad, di Beirut o di Teheran è facile sentire gli sconvolgimenti degli ultimi 20 anni nella regione spiegati con la teoria del Grande Complotto. “Sono gli americani ad aver creato tutto questo, vogliono portarci il caos per preparare un nuovo Sykes-Picot”, mi ha detto Antoine, un amico libanese avvocato, di fede cristiana.
Ecco la ferita che ancora brucia nei rapporti con l’Occidente: l’accordo segreto firmato durante la Prima Guerra Mondiale con cui Francia e Gran Bretagna decisero come si sarebbero spartite il Medio Oriente alla fine delle ostilità, proprio mentre Londra, per il tramite di Lawrence d’Arabia, prometteva agli arabi l’indipendenza in cambio della rivolta contro l’Impero Ottomano.
Ce n’è abbastanza per alimentare diffidenze per almeno un altro secolo. Diffidenze di cui approfittano anche organizzazioni jihadiste. Fra le prime dichiarazioni emesse dall’Isis dopo la proclamazione della rinascita del ‘Califfato’, nell’estate del 2014, vi fu quella intitolata ‘La fine del Sykes-Picot’, con la quale si voleva evidentemente fare appello ai sentimenti anticolonialisti delle popolazioni mediorientali.
E molti anni prima sentimenti nazionalisti ebbero un forte peso, insieme con il malcontento economico, nello scoppio della rivoluzione iraniana del 1979, poi diventata ‘islamica’ sotto la guida di Khomeini.
Ma c’è anche un altro fenomeno che alimenta la diffidenza fra Medio Oriente e Occidente. I musulmani non hanno paura della religione cristiana, ma al contrario, dell’ateismo occidentale. Chi abbia visitato i Paesi musulmani fino agli anni ’70 del Novecento ricorda quanto i costumi fossero più ‘laici’ rispetto ad oggi.
Certe strade del Cairo, di Baghdad, di Damasco, non erano molto diverse da quelle di una città mediterranea europea. Le donne coperte dal velo erano poche, ai tavolini dei bar all’aperto si beveva la birra, i cartelloni pubblicitari e le locandine dei cinema erano quasi gli stessi. Poi, con il passare degli anni, queste realtà simili si sono polarizzate verso estremi opposti. Da una parte un Occidente in cui veniva contestato e in molti casi demolito ogni fondamento della cultura tradizionale, dalla religione alle ideologie politiche, alla famiglia, con l’autorità dei genitori. Un mondo in cui il sesso, soprattutto quello parlato, quello nella pubblicità, nei film e nei media, diventava sempre più esplicito ed obbligatorio, nel nome di una (presunta) liberazione.
Dall’altra un mondo islamico sempre più arroccato nella sua reazione di difesa, sempre più (falsamente) puritano perché impaurito da un Occidente che sembra solo in grado di distruggere le vecchie regole, ma non di proporne di nuove per salvaguardare le basi della vita comunitaria. Un Occidente che pare sostituire l’autorità di Dio o dello Stato con quella dell’Individuo, con i suoi sconfinati diritti e la sua ricerca di una sconfinata libertà. Ma anche con la sua solitudine. Quando vivevo in Iran il mio lavoro mi ha costretto per molti anni ad ascoltare i sermoni della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e le sue denunce dell’ “invasione culturale dell’Occidente”.
Tuttavia, quello contro cui si scaglia Khamenei non sono gli infedeli seguaci di un’altra religione, ma un mondo che alla religione, ai valori della tradizione, ha voltato le spalle. Evidentemente è questa la possibile invasione, il contagio, che fa più paura. La paura a cui Khamenei dà voce è quella di una disintegrazione del mondo di appartenenza, non più tenuto insieme dal cemento di regole valide per tutti. La paura insomma di quello che lo psicanalista Massimo Recalcati chiama il “nichilismo occidentale, che non è più in grado di dare un senso alla vita e alla morte”, dopo aver “demolito ogni concezione solidaristica dell’esistenza”.
Probabilmente il desiderio di fuggire da questo nichilismo ha spinto molti giovani occidentali ad aderire all’Islam estremista e addirittura arruolarsi nell’Isis, alla ricerca, sicuramente nel postro sbagliato, di punti di riferimento rassicuranti. Uno studio del Centro di prevenzione contro le derive settarie dell’Islam (Cpdsi) è illuminante a questo proposito.
Secondo i risultati dell’analisi, i “soggetti cresciuti in famiglie eccessivamente tolleranti o atee” sono “più propensi a trovare conforto in messaggi che, contrariamente al loro contesto famigliare, diano nette regolamentazioni dottrinali”. ‘Risposta al fondamentalismo laico’ è il titolo di un messaggio video postato su Facebook da Aleppo nel 2013 dal jihadista Anas al Abboubi, detto anche Al Italy, l’italiano.
Al Abboubi era un giovane di origine marocchina, ma effettivamente italiano, perché era vissuto in provincia di Brescia con i genitori da quando aveva 7 anni. Fino al 2012 era un adolescente ribelle, cantante rap con il nome di McKhalif, che parlava con un forte accento bresciano e beveva alcol. Poi, la conversione, che gli fa rinunciare anche alla musica. Dopo un breve arresto, fugge in Siria e si unisce all’Isis. Nel suo messaggio da Aleppo, il giovane definisce la società occidentale “perversa e malinconica”, accusandola di individualismo, promiscuità sessuale, discriminazione e di poco rispetto per gli anziani.
Secondo i due autori che hanno studiato il suo caso, Marco Arnaboli e Lorenzo Vidino, è un vero “atto di accusa ai valori (o meglio, alla mancanza di essi) della società italiana e occidentale”.
Cosa possono fare i media per superare l’approccio schematico e falsato dello scontro di religioni?
I giornalisti hanno innanzitutto il dovere di non farsi coinvolgere nelle ondate emotive del momento, e cercare di analizzare con razionalità i fatti, chiedendosi sempre quali sono i motivi e gli interessi, o i sentimenti nazionalisti, che si nascondono dietro ai presunti conflitti di religione e fomentano l’odio.
Per questo bisogna studiare seriamente la storia e la situazione geopolitica della regione di cui ci si occupa. Purtroppo questo avviene raramente, perché dinanzi ad ogni guerra o scoppio di violenza si è subito sommersi, specie sui social media, da una marea di messaggi e immagini cruente che inducono l’osservatore a reagire in modo semplicemente istintivo, attribuendo sbrigativamente al ‘cattivo’ di turno la colpa di quanto avviene.
Si crea così un circuito politico-mediatico in cui tutti intervengono per dire la loro senza avere conoscenza reale dei fatti. E senza nemmeno preoccuparsi di accertare se le fotografie sono autentiche oppure, come a volte avviene, sono vecchie immagini riutilizzate in contesti completamente diversi.
Il giornalista non dovrebbe mai dimenticare il suo primo dovere, che è anche ciò che lo contraddistingue come professionista: verificare, nei limiti del possibile, ogni informazione e ogni immagine che si trova a trattare. E, quando non è possibile farlo, deve informarne onestamente i lettori.
Viaggiare, e vedere con i propri occhi le cose, è ovviamente di primaria importanza, per chi possa farlo. Si verrebbe così a scoprire che la realtà a volte è molto diversa da come viene gridata sui media. Per fare un esempio, durante le manifestazioni ostili all’Occidente svoltesi negli anni scorsi in alcuni Paesi musulmani, come nel caso della pubblicazione di vignette su Maometto, si sarebbe scoperto che a tali raduni partecipavano qualche centinaio, o in alcuni casi poche migliaia di persone, in città con diversi milioni di abitanti.
Intorno la vita continuava a scorrere normale, ma le telecamere si concentravano solo sui gruppi di manifestanti, intenti magari a bruciare la bandiera americana e di Paesi europei. Così il messaggio che veniva veicolato era che “il mondo dell’Islam è in rivolta contro l’Occidente”.
Perché c’è islamofobia, antisemitismo, cristianofobia in Occidente dove c’è libertà di religione?
Se fino a 50 anni fa i contatti tra religioni e culture diverse erano limitati, il grande movimento di globalizzazione degli ultimi decenni, con la circolazione delle informazioni e delle persone, ha creato un terreno di confronto ravvicinato.
Le nostre società devono ancora prendere le misure e adattarsi a questi nuovi tipi di rapporti. Inoltre, la globalizzazione dell’economia ha portato, insieme con gli indubbi benefici, anche molti scompensi e nuove tensioni tra Paesi ricchi e poveri. Per non parlare della globalizzazione dell’informazione, con la possibilità di diffondere in tutto il mondo in pochi minuti notizie vere o false.
Secondo una frase attribuita al ministro della propaganda del regime nazista, Joseph Goebbels, una menzogna detta una volta è una menzogna, ma ripetuta continuamente diventa una verità. E le tecnologie di oggi danno la possibilità di ripetere e fare ripetere una menzogna milioni di volte.
In questa situazione è più facile diffondere i sentimenti di odio verso chiunque venga percepito come diverso, e sul quale si può scaricare la responsabilità dei propri problemi e delle proprie sofferenze. Questo fenomeno non si combatte con gli slogan, ma con una difficile e continua opera di educazione dei giovani che faccia capire loro come sia fondamentale il rispetto delle persone, che deve sempre essere reciproco. Le persone vanno rispettate non perché appartengono ad una determinata religione, ma in quanto appunto persone.
Quando si insulta una religione – o qualsiasi profonda credenza – non viene ferita la ‘chiesa’ di appartenenza, ma i sentimenti più intimi delle persone di quella fede. E’ una violenza contro la parte più cara di sé che ciascuno di noi ha. E i mediorientali– come noi – vogliono essere rispettati prima di tutto come esseri umani, e non come caricature di musulmani dietro le quali non è difficile (nemmeno per loro) intravvedere una condiscendenza ipocrita dalle venature razziste.
Cosa possono fare i leader spirituali delle diverse religioni per combattere l’odio e favore i dialogo?
Come dicevoprima, non servono gli slogan, ma un percorso di educazione rivolto in particolare ai giovani che deve fondarsi anche su fatti ed esempi concreti. A questo proposito vorrei citare i tanti sacerdoti e suore che ho visto operare in Medio Oriente, spendendosi a favore di tutti, cristiani o musulmani, pur nella tempesta che ha investito la regione portando una minaccia alla presenza stessa dei cristiani. Come padre Luciano Burati, 65 anni, dei quali 25 passati a Qamishli, nel nord della Siria vicino alla frontiera con la Turchia, e che poi si è spostato a Kafrun, vicino a Homs, per gestire una casa salesiana che ospita decine di sfollati da Aleppo.
Come madre Annamaria Scarsella, alla quale è stato ordinato di andare a Damasco nel 2011 a dirigere l’ ‘ospedale degli italiani’, anch’esso dei salesiani, dopo 41 anni nelle scuole e nelle missioni del Messico, compreso il Chiapas. Come il padre gesuita olandese Frans van der Lugt, che ha voluto rimanere al fianco dei malati e degli affamati nella città assediata di Homs, dove è stato ucciso nell’aprile del 2014.
Come suor Patrizia Guarino, di Avellino, una francescana quasi ottantenne rimasta a Knayeh, nel nord-ovest della Siria conteso tra l’Isis e Al Qaida, per gestire un dispensario dove venivano curati 6.500 malati all’anno. Come coloro che lavorano all’iniziativa ‘Ospedali aperti in Siria’, voluta dal nunzio Zenari e realizzata dalla ong Avsi, che permette di offrire cure gratuite a migliaia di poveri in due ospedali di Damasco e uno di Aleppo.