Il contributo di Aristotele per il futuro delle aziende
Giorgio Faro ha inaugurato il 24 ottobre 2019 il corso “Imparare a comunicare l’impresa virtuosa” con una relazione intitolata “La virtù secondo Aristotele: può un’impresa essere virtuosa?”. Il Corso è organizzato a Bari dalla Business School dell’Ipe e si svolge presso il collegio universitario Poggiolevante da ottobre a gennaio. Nella prima sessione, alla esposizione teoretica del prof. Giorgio Faro, docente di Filosofia alla Pontificia Università della Santa Croce, si è aggiunta la testimonianza di Cesare Avenia, presidente di Confindustria digitale, Fondazione Lars Magnus Eticsson.
1. Breve premessa: perché Aristotele?
Occorre, innanzitutto, dar ragione del titolo di questo incontro inaugurale di una serie; e anche dell’immagine di Aristotele, selezionata per l’occasione. Partiamo da quest’ultima.
L’immagine con il busto di Aristotele, che propaganda questo incontro, la conosco molto bene. Lavoro alla PUSC e il Museo Altemps, di arte romana, si trova proprio di fronte all’ingresso dove lavoro: qui è esposta quella scultura. E’ forse il busto più ricco e bello del grande filosofo. Nella scultura policroma, il mantello è realizzato in un marmo pregiato, di colore diverso dal volto.
Tuttavia, perché tirare in ballo oggi Aristotele, un filosofo nato a Stagira il 19 giugno del 384 a. C. e deceduto il 7 marzo del 322, l’anno dopo la morte di Alessandro Magno?
Se è vero che ogni filosofia è anche figlia del suo tempo e del diverso stato dell’arte della scienza, per cui nella stessa filosofia di Aristotele vi sono aspetti certamente superati, i grandi filosofi conservano sempre qualcosa di perennemente valido e stimolante, sulle questioni ultime di senso dell’esistenza e sul fondamento della realtà che ci circonda. Già il fatto, che conosciamo persino giorno e mese della sua nascita e morte, ci fa capire quanto fosse considerato lo Stagirita nei tempi antichi. Alla domanda che ho posto, lascio perciò rispondere Heidegger:
“Platone e Aristotele parlano ancor oggi il nostro linguaggio. Anche Parmenide ed Eraclito pensano ancora nel nostro modo di rappresentazione. Solo il riferimento alla coscienza storica attuale potrebbe lasciaci credere, che si tratterebbe di personaggi appartenenti al museo della storia spirituale […]. Si continua a credere che la tradizione sia trascorsa, che resti soltanto come oggetto della coscienza storica. Si continua a credere che la tradizione sia propriamente tutto ciò che sta dietro di noi, mentre essa viene invece verso di noi, perché le siamo consegnati…” (M. Heidegger, Che significa pensare?, Sugarco, Milano 1988, pp. 133-134).
Aristotele -nella storia- ha subito anche parziali momenti di eclissi, ma sempre si assiste alla rinascita di ciò che di perenne e attuale resta del suo pensiero. L’ultima di queste rinascite è avvenuta proprio nel mondo anglosassone, di tradizione empirista. Il filosofo Alasdair MacIntyre, con il libro dal significativo titolo Dopo la virtù (After virtue), ha fatto fiorire negli Stati Uniti e in Inghilterra, un filone neo-aristotelico di straordinaria importanza, con successivo impatto anche in Europa, per cercare di risolvere la crisi della politica oggi diffusa ovunque. Il libro è apparso in Italia nel 1977, pubblicato da Feltrinelli, diventando subito un best-seller, cosa rara per una pubblicazione filosofica. È tuttora un libro che invito a leggere. MacIntyre, di originaria formazione marxista, è uno scozzese emigrato negli Stati Uniti, dove ha fatto fortuna. Ora è emerito, dopo aver insegnato alla Notre Dame University. Tuttora molto critico verso il capitalismo americano, ha anche riscoperto Tommaso d’Aquino, quale grande interprete di Aristotele. Ed è poi divenuto cattolico, motivo per cui -da allora- Feltrinelli non gli pubblica più niente (ma Dopo la virtù, lo ha ripubblicato proprio la mia università: Armando ed., Roma 2006; tuttora reperibile).
2. Perché parlare oggi della Politica di Aristotele?
Per l’incontro odierno, ho pensato che il libro più significativo di Aristotele sia la Politica (consiglio vivamente la lettura di Richard Bodéus, La filosofia politica di Aristotele, Edusc, Roma 2008). Ricordiamoci che Aristotele scrive il suo manuale di etica fondamentale, l’Etica a Nicomaco (di cui si conservano varianti: l’Etica Eudemia e forse anche la Grande Etica, se non scritta da lui, almeno da un suo scolaro), come introduzione alla Politica. Nell’Etica a Nicomaco, Aristotele sostiene che gli ingredienti della felicità umana siano due. Se hai una beautiful mind, è una grande gioia -da filosofo- arrivare a riflettere sulla causa prima e più profonda dell’universo, che per Aristotele è Dio, per quanto molto poco si possa conoscere di lui usando della sola ragione umana, che è poi l’unico strumento di indagine dei filosofi. Se però non hai una beautiful mind speculativa, ogni altro uomo in che modo si può realizzare?
Mettendo gratuitamente a disposizione le proprie virtù, acquisite con l’esercizio (le virtù non sono innate), non solo a favore di amici e famigliari, ma anche al servizio dei concittadini: in vista del bene comune. In questo modo, è in politica che una persona si realizza di più e meglio. Anche se il bene comune non è il fine ultimo dell’uomo: il bene dell’amicizia, il bene famigliare, il bene dell’autosufficienza economica, grazie al lavoro, e il bene comune politico, sono mezzi che agevolano la felicità relazionale della persona. Inoltre, Aristotele distingue anche tra retto amor di sé, che denomina autofilia, distinto dall’egoismo.
L’autofilia consiste nell’operare disinteressatamente e virtuosamente il bene, a favore degli altri; mentre l’egoista si serve degli altri, per operare nel proprio esclusivo interesse. L’egoista vede nell’altro, o un potenziale complice da coinvolgere in un rapporto do ut des; oppure, un concorrente da neutralizzare. Per Aristotele la felicità nasce non dalla constatazione di avere acquisito abiti virtuosi (è il limite dello stoicismo), ma quando attualizziamo le virtù a beneficio degli altri: quando siamo operativi. La felicità aristotelica è un’attività virtuosa, a favore degli altri. Paradossalmente, il modo migliore di perfezionare sé stessi, promuovendo la nostra strada alla felicità, è per Aristotele quello di dedicarsi disinteressatamente a favorire la felicità altrui; ma è impossibile riuscirci, se prima non ci dedichiamo ad acquisire le virtù, che mirano a integrare la nostra dimensione emotiva con quella cognitiva, forgiando il nostro carattere. Siamo tutti persone, ma diventare questo particolare tipo di persona -virtuosa o viziosa-, questo dipende da noi.
Aristotele arriva alla seguente conclusione: l’uomo che sa beneficare non solo familiari e amici, ma anche i concittadini in politica, è colui che meglio si realizza: può non essere necessariamente un filosofo, ed essere egualmente felice. Al contrario, un filosofo che non abbia alcun amico, famigliare o concittadino, da beneficare con le proprie virtù, non può essere felice.
Coerentemente con questo modo di pensare, Aristotele riteneva che il contenuto più rilevante e profondo del bene comune politico, consista nell’agevolare l’acquisizione e la pratica delle virtù ai cittadini, con un’educazione adeguata. Anche Platone, che pure viene criticato nel suo scritto utopico, oggi diremmo un po’ talebano, La Repubblica, condivideva con Aristotele questo stesso fine. Forse per correggere il tiro, Platone scriverà un’ultima importante opera politica Le leggi, varando una costituzione mista, che costituirebbe -per lui- la “meno peggio” tra le forme di governo politiche praticabili. Al contrario, Aristotele elaborerà il suo progetto politico, come il meglio che si possa realizzare. E tra le tante utopie politiche proposte nella storia, guarda caso, quella aristotelica -seppur di difficile attuazione- resta quella più concretamente realizzabile.
3. Perché parlare in questo nostro incontro della Politica di Aristotele?
In un certo senso possiamo dire che Aristotele nel suo trattato di politica, risponde proprio a questa domanda, che per analogia si può poi applicare all’impresa: può una polis, una città-stato, essere virtuosa? In politica la virtù principale è la giustizia, alla base della convivenza umana e della concordia tra cittadini. Può uno stato essere giusto?
Per rispondere a questa domanda, occorre anche formularne un’altra: qual è la principale differenza tra la politica degli antichi e dei moderni?
Proviamo a replicare a tali questioni, partendo da quest’ultima, facendola però precedere da alcune considerazioni preliminari. Intanto, occorre rammentare che la filosofia dà un certo fastidio alla politica; e per alcuni filosofi, come Platone, la politica è cosa troppo importante, per lasciarla a comuni politici… Il più delle volte, i politici ignorano la filosofia; mentre i filosofi si occupano volentieri di politica. Anassagora e Socrate, furono vittime della politica. Aristotele rischiò di esserlo. Thomas More, l’autore di Utopia, fu decapitato.
Platone, comprese che libri e dibattiti servono a poco. Perciò si trasferì due volte a Siracusa, convinto di potersi appoggiare all’autorità dei tiranni locali, per far mettere loro in pratica le proprie idee. Con Dione, gli stava andando bene (ma finì assassinato, dopo qualche anno); con i due Dionigi, il Vecchio e il Giovane, gli andò decisamente male: fu venduto, come schiavo, al mercato di Egina (e riscattato -per sua fortuna- da un amico, che lo riconobbe).
Aristotele invece cercò di convertire un principe alla filosofia: scrive la sua Esortazione alla filosofia dedicandola al re di Cipro, Temisone. Sul suo esempio, Musonio Rufo scriverà il trattato: Anche i re devono studiare filosofia. Aristotele, tuttavia, non crede che i filosofi debbano governare, ma piuttosto -come aveva già cercato di fare Platone- essere consiglieri dei governanti.
Esiste anche una filosofia aziendale e sarebbe bene, come già succede, che laureati in filosofia vi si dedichino, senza per questo proporsi come amministratori delegati. Infatti, per Aristotele, lo statista di professione acquisisce una fronesis politica, una prudenza politica (la prudenza non è cautela, ma la virtù strategica che sa scegliere mezzi adeguati a raggiungere il fine; distinta dall’astuzia, che è un vizio), che lo mette in grado di emanare saggi decreti e provvedimenti per la polis; ma ciò esige un tirocinio che manca al filosofo, dedito agli esercizi teoretici. Per questo, Aristotele ha due diversi campioni per la politica: per lui, Socrate sarebbe il miglior consigliere politico; l’altro campione è Pericle, il miglior statista che Atene abbia mai avuto. Il primo eccelle nella saggezza (fronesis) teorica (conoscenza dei principi universali di azione), connessi alla sofia (la superiore sapienza speculativa); il secondo, nella fronesis, come saggezza pratica, o prudenza politica, che implica l’operare bene scegliendo i mezzi adeguati: non in teoria o in condizioni ideali, ma ora e adesso nelle condizioni date, assumendosi rischio e responsabilità. Per Aristotele, è evidente che la politica -ma anche l’economia- sono strettamente legate all’etica: sono etiche applicate ai relativi contesti.
A questo punto, riproponiamo la precedente domanda: cosa distingue la politica dei moderni, da quella antica?
Ha cominciato a distinguersi con Machiavelli, che nel Principe, stacca la politica dall’etica e ne fa scienza a sé stante, privilegiando lo studio delle forme di governo, delle strutture e degli automatismi più adeguati alla conservazione di uno stato. In un certo senso, le virtù vengono relegate a qualità private; e troppo spesso, al politico basta esibirne la mera apparenza; mentre ciò che conta, ancora oggi in uno stato moderno, sono le pari opportunità e le regole comuni da rispettare. Trovare le regole più adeguate e offrire a tutti pari opportunità, sembra risolvere oggi il paradigma della giustizia, così che “giusto” può essere considerato oggi un ordinamento giuridico, non una persona.
Aver abbandonato la rilevanza delle virtù personali, come elemento portante e fine della politica, induce sempre a una stessa falsa soluzione quando arrivano le crisi cicliche dell’economia: “occorre cambiare le regole” (o “le strutture”) è l’unico mantra, oggi ripetuto sino alla nausea. E’ come riproporre l’eterno inseguimento tra creatori di nuove serrature e i ladri che imparano poi a forzarle: occorre cambiare i meccanismi… Anche Aristotele riconosce la dovuta importanza alle forme di governo e agli ordinamenti giuridici più auspicabili, o a legislazioni giuste; ma tutto ciò non serve a nulla, se i cittadini di quello stato non sono innanzitutto loro, virtuosi come persone. Detto in altri termini: prima le virtù personali; poi anche regole e strutture adeguate. Qui sta il nocciolo della differenza tra politica degli antichi e dei moderni.
Diamo un motivo, per cui Aristotele pone Socrate come consigliere politico ideale. Socrate ritiene, infatti, che la forza di una polis sia l’educazione alla virtù dei cittadini, senza la quale “i cittadini passeranno tutta la vita a fare e disfare un’infinità di leggi, credendo sempre di trovare la migliore” (Platone, Repubblica, IV,4 425e). Penseranno che cambiare le leggi o le regole, sia l’unica soluzione. Molto spesso poi, in queste occasioni, si finisce per emanare una congerie di leggi repressive per contrastare coloro che violano le regole, creando quell’inflazione legislativa che finisce per limitare le libertà anche dei cittadini virtuosi, danneggiati assieme a quelli non esemplari. Qui ci viene in soccorso Tacito, che di politica se ne intendeva: “tanto più corrotto uno stato, tanto più numerose le leggi” (Annales, III 27,3). Di fatto, Agostino spiegherà meglio il principio. Anche dove le strutture e gli ordinamenti di uno stato fossero i migliori possibili, “se non è rispettata la giustizia [come virtù personale], cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri?” (De civitate Dei IV,4). La differenza la fa il fine della politica, che è il bene comune; ma per aspirare al bene comune, occorre innanzitutto la virtù personale: e dei cittadini, e dei governanti. A che servono se no, regole e strutture ideali?
4. Paralleli tra polis e impresa
Per analogia, ritengo che il principale investimento di un’azienda sia la crescita delle qualità personali, cioè le virtù dei propri dipendenti; e una selezione attenta tra i nuovi assunti. Tra tutte le utopie politiche, ritengo che quella più realizzabile resta quella proposta di Aristotele e cercherò ora di spiegarne i motivi.
Aristotele era vissuto ai tempi di Alessandro Magno (di cui fu, per breve tempo, precettore), che man mano che estendeva le sue conquiste, dal fiume Indo sino al Nilo, faceva costruire nuove città battezzate con il proprio nome, la più famosa delle quali è tuttora esistente: Alessandria d’Egitto. Ora, sia Platone che Aristotele, erano molto interessati alle colonie; così, come lo furono i coloni europei del Nordamerica. Era l’avventura ideale, per sperimentare nuove forme di governo e di convivenza politica, facendo coesistere fedi e tradizioni diverse. Tornando ad Aristotele, egli riteneva compito di un filosofo, consigliere di un politico, indurre i governanti a trasformare forme deteriori di governo in migliori. Per forme deteriori, Aristotele intendeva il governo di uno (tiranno), pochi (oligarchi) e molti (democrazia popolare) che perseguono i propri interessi (e quindi non il bene comune) a danno degli altri cittadini, che ne vengono strumentalizzati. Pertanto, il buon filosofo farà constatare al tiranno, che il modo migliore di conservare il potere è di comportarsi da re virtuoso, comandando a favore dei cittadini; e non, nel proprio interesse. Così gli oligarchi, dovrebbero essere trasformati in aristocratici (si parla qui di nobiltà, nella virtù); la democrazia popolare dovrebbe trasformarsi in una middle class maggioritaria, laboriosa (autosufficiente), sobria e virtuosa.
Per Aristotele la miglior forma di governo sarebbe la monarchia, se incarnata da una persona molto virtuosa; il problema è che le monarchie sono dinastiche e i figli, troppo spesso, non risultano all’altezza dei padri. Perciò, la forma ideale di politica è per Aristotele la formazione di una middle class maggioritaria, che deve avere due caratteristiche: la virtù dei cittadini e l’autosufficienza nel lavoro. Ai cittadini vengono garantite pari opportunità, attraverso il sorteggio dei posti di responsabilità, tranne la strategia militare (un comandante non si improvvisa, occorre una pratica e un’esperienza di base): equivarrebbe a un amministratore delegato in un’azienda, che deve sapere come difenderla dalla concorrenza e guidarne l’espansione economica. Anche una democrazia popolare esige il sorteggio delle cariche, ma è formata per lo più da poveri, che entrano in politica spesso senza virtù personali; e infine, solo per arricchirsi (quindi, non per il bene comune dei cittadini); così come gli oligarchi entrano in politica, solo per il proprio onore e fama, o quello della propria famiglia, non per il bene comune. Chi invece è autosufficiente con il suo lavoro, non ha bisogno di entrar in politica per arricchirsi, né va a caccia di gloria; ma vi resta mirando solo al bene comune dei concittadini, a patto di essere anche virtuoso e di giovare con le proprie virtù.
È un’utopia impossibile da realizzare? Per Aristotele è assai difficile realizzarla, ma non impossibile. Tornando agli esperimenti coloniali, nel 444 a. C. Pericle fondava una nuova colonia in Lucania, con il nome di Thuorioi (Turi), i cui resti si trovano presso l’attuale Policoro-Siri. Si trattava di una colonia panellenica: ovvero erano stati coinvolti, nella sua fondazione, cittadini greci provenienti dalle più diverse città, cui venivano garantite pari opportunità e una costituzione adeguata. Ora, anche Aristotele poteva escogitare qualcosa del genere, scegliendo di fare abitare una nuova Alessandria coloniale a cittadini reclutati da varie città greche, che avessero queste caratteristiche: essere autosufficienti sul lavoro (con una propria piccola o media impresa famigliare, delegata a un bravo amministratore), ma anche selezionati come sobri e virtuosi. Costoro potevano arrivare così a formare quella maggioritaria middle class, che Aristotele auspicava come la miglior forma di governo possibile, con pari opportunità per essere eletti ed elettori a posti di responsabilità.
Ora, se possiamo mettere qui da parte l’autosufficienza economica (necessaria, per non entrare in politica al solo scopo di arricchirsi), quello che Aristotele pensava è proprio una selezione del personale, in base alle virtù dei singoli. Ciò che oggi fanno molte aziende. Prendo qui spunto dal Prof. Ciappei, che ha paragonato le piccole polis aristoteliche (paragonabili a un nostro comune, dove tutti si conoscono almeno di vista) alle attuali imprese economiche. La prima ricchezza di una polis, o di un’azienda, è anzitutto conferita dalla somma delle virtù delle singole persone che la compongono; e dalla concordia e compartecipazione a un bene comune politico, o aziendale che sia. Poi, occorrono anche regole precise per lavorare in gruppo, un ordinamento interno e strutture adeguate.
Aristotele metterebbe anche in guardia i selezionatori di personale a verificare non solo la presenza di buone virtù intellettuali nei candidati, cosa sempre apprezzata; ma che a dette virtù, che Aristotele designava come dianoetiche (perfezionano l’abilità intellettuale teorica e pratica), corrisponda anche l’esistenza delle ancora più importanti virtù etiche: cioè quelle che definiscono il carattere di una persona. Persone dotate in natura di un’intelligenza sopraffina, se non educano anche il proprio carattere, sono le persone più pericolose e indesiderate da assumere in azienda. Essendo molto intelligenti, ma senza virtù del carattere, possono fare molto danno proprio al bene comune aziendale, manipolando persone e l’azienda stessa, per propri fini individualistici. È noto, inoltre, come sia assai raro riscontrare in una persona molto intelligente la presenza della virtù dell’umiltà (che pure è segno d’intelligenza). Se dovessi indicare un esempio, a livello mondiale, mi viene in mente giusto Joseph Ratzinger.
5. Le virtù più necessarie per Aristotele: prudenza (saggezza strategica), coraggio e … amore?
Quali virtù Aristotele metteva al primo posto, non solo in politica ma anche nel lavoro, che alla sua epoca implicava la presenza di schiavi?
Lo schiavo per natura, è per Aristotele colui che non ha avuto alcuna educazione etica o non si è mai esercitato per conseguire abiti virtuosi. Lo schiavo è tale, perché -di conseguenza- è incapace di agire bene nel proprio interesse; quindi lavora nell’interesse del padrone (ricevendo in cambio vitto e alloggio). Tuttavia, lo schiavo fa parte della famiglia. Perciò, se il padrone riesce a educarlo almeno a due virtù, fondamentali anche in politica, che sono la prudenza (saggezza strategica) e il coraggio, Aristotele riteneva che il padrone dovesse liberare lo schiavo che -grazie all’esercizio di queste due virtù- si mostrasse capace di amministrarsi da solo. E Aristotele liberò i suoi schiavi. Per lui, la schiavitù -quella per natura- non crea una classe chiusa, da cui non si può uscire. Se ne può uscire con l’educazione alle virtù e la loro pratica: l’esercizio.
L’esatto contrario della schiavitù economica, teorizzata da Bernard De Mandeville nell’Apologo delle Api: perché pochi uomini intelligenti possano arricchire uno stato, è necessario mantenere una grande massa di lavoratori poveri e laboriosi, escludendoli dall’educazione, che deve perciò risultare molto onerosa, accessibile solo a pochi e ricchi. Una massa di poveri laboriosi sono, per Mandeville, la vera ricchezza delle nazioni. Le uniche virtù, che si richiedono loro, sono la laboriosità e la religione, che deve essere insegnata gratuitamente come effetto consolatorio; per cui Marx parlerà poi di “oppio dei popoli”.
Tornando invece alle due virtù fondamentali di Aristotele, soffermiamoci sulla fronesis (prudenza, saggezza strategica: e non cautela). Tutta l’etica aristotelica è un’etica imperniata sulla saggezza-prudenza, che è la virtù che perfeziona la ragion pratica (facoltà intellettuale), finalizzata all’agire; in tal senso è dianoetica e, come tale, si può anche definire la virtù del giusto mezzo. In morale, le azioni sono il mezzo, con cui raggiungere il bene, che è il fine dell’agire. Quindi la saggezza è virtù strategica perché, non in teoria, ma ora e adesso ci suggerisce l’azione più adeguata a raggiungere il fine. Come si vede, cosa ben diversa dalla cautela.
Tuttavia, essa è anche etica e virtù del giusto mezzo, perché -non in teoria-, ma ora e adesso ci suggerisce quale sia il giusto mezzo, il vertice perché quella azione -prescelta- sia anche eseguita in maniera virtuosa (così da perfezionare il soggetto stesso che agisce), evitando come estremi il vizio per difetto e quello per eccesso. È la prudenza che fissa, ora e adesso, la misura adeguata alle virtù etiche, il loro vertice; e in tal senso è dianoetica, ma anche etica. È l’anello di congiunzione strategico, tra virtù dianoetiche (intellettuali) ed etiche (del carattere).
Aristotele, forse in modo che ci appare oggi un po’ sciovinista, vedeva nel greco l’uomo completo, in quanto dotato e di saggezza strategica e di coraggio. Per lui potevano essere schiavi dei greci i barbari, che si distinguevano in due tipologie: i settentrionali (come Traci, Daci, Sarmati e Sciti), che erano ardimentosi in guerra, ma venivano regolarmente battuti dai Greci, essendo privi di prudenza-saggezza, così che perdevano in battaglia per temerarietà (vizio per eccesso, del coraggio); e gli orientali, cui Aristotele riconosceva la prudenza-saggezza di una civiltà superiore, rispetto ai barbari settentrionali, ma che erano privi di coraggio e quindi di carattere: lo testimonia il fatto, che una coalizione di piccole città greche aveva, per due volte sconfitto gli imperatori persiani invasori (Dario e Serse). Certo le virtù etiche non si riducono solo al coraggio, ma dal momento che conseguire una virtù è sempre un bene arduo, se uno è privo di fortezza, di coraggio, non vi riuscirà mai.
In certo senso, la prudenza strategica è virtù sempre necessaria; ma senza le virtù etiche, in primis il coraggio, il risultato è quello descritto da Ovidio nelle Metamorfosi (cap. III): video meliora proboque, sed deteriora sequor. Ossia, “vedo [con la saggezza] le cose migliori da farsi, ma mi lascio andare alle peggiori” (per mancanza di esercizio nelle virtù etiche, in primis di fortezza).
Quindi, anche per l’assunzione del personale in un’azienda, Aristotele consiglierebbe di valutare specialmente il grado di prudenza (saggezza strategica) e coraggio di una persona. Il coraggio per lui è importante, nella stessa economia. Lo Stagirita temeva la degenerazione di un’economia “naturale” al livello di quella che lui chiamava economia “commerciale”. Infatti, i fautori di un’economia commerciale, nel tentativo di perseguire un benessere eccessivo, cercano anche tutto ciò che può assicurare tale benessere eccessivo, e se non possono riuscirvi con l’economia, lo cercano altrimenti, usando ogni facoltà in modo anti-naturale. Ciò che è proprio del coraggio non è produrre denaro, ma fiducia; […] ciononostante, alcuni conformano al solo fine economico tutte le loro facoltà, come se il produrre denaro fosse il fine universale ed ogni cosa si orientasse a tal fine (Politica, I,9 1258a).
L’importanza del coraggio, generatore di fiducia anche in economia, l’afferma J. M. Keynes, grande ammiratore di Aristotele. Per lui e per von Hayek -così diversi e conflittuali tra loro- non c’è alcun dubbio che Aristotele avesse tutte le ragioni nel precisare che l’economia, come la politica, è una branca dell’etica. Ciò significa porre la persona prima del profitto (o delle regole), pur restando vero che ogni azienda deve anche produrre profitti, se vuol salvaguardare la sua sopravvivenza e il posto ai suoi dipendenti.
Aristotele afferma, parlando dell’amicizia ma anche del lavoro, l’importanza dell’amore (cfr. Etica a Nicomaco, IX,7). Si può, anche oggi, lavorare per tre motivazioni elementari: per piacere, per dovere, o per amore. Solo grazie all’amore, però, nel lavoro si è capaci di dare sé stessi, mettendosi in gioco per gli altri. Aristotele esita, tuttavia, a definire l’amore una virtù, anche se ne ammette una forte affinità (ibidem, VIII,1). Abbiamo intuito che, per lui, ogni virtù è classificabile come vertice, che si staglia sopra due vizi contrapposti: il vizio per difetto; e quello per eccesso. Così il coraggio è un vertice che evita simmetricamente la codardia e la temerarietà. Nel caso dell’amore, Aristotele esita a definirlo una virtù: ammette, infatti, che -nel solo caso dell’amore- l’eccesso non è un vizio (ibidem, VIII,7), ma anzi un elemento ulteriormente capace di perfezionare il soggetto umano. Tommaso d’Aquino, grazie alla rivelazione di un Dio, che si fa uomo e muore per amore, definirà l’amore come: mater, motor et forma virtutum: il movente più decisivo a perfezionare una persona, perfezionandone le virtù.
6. Conclusioni
A differenza del mondo attuale, dove sembra che l’importanza di una persona dipenda solo da ciò che uno fa, Aristotele e Tommaso ricordano che questo non è così importante; ma piuttosto è decisivo cosa fa di sé stesso qualcuno, quando fa qualcosa. Mi viene bene, una vecchia pubblicità della Pirelli: “non importa quanta strada hai fatto, ma come l’hai fatta”.
Le virtù hanno a che fare proprio con il come. Il come è quello che fa la differenza e nobilita, o svalorizza una persona. Ciò è rilevante anche nella selezione del personale, nel mondo del lavoro. Mi chiedo, comunque, se oggi non sia necessario un primo (e preferibilmente unico) contratto a termine (una specie di tirocinio), inferiore all’anno solare. Risulta infatti talora difficile valutare le virtù, da un semplice colloquio con un potenziale dipendente, anche se -in alcuni casi- a persone esperte è possibile.
Infine, se -per Aristotele- compito abituale del filosofo consigliere di un governante è indurre la trasformazione di regimi deteriori in migliori, Thomas More invita un filosofo/consigliere a restare al suo posto, anche se non fosse possibile realizzare tale intento. Dove non sia possibile ottenere il bene comune, il consigliere politico ha il dovere di cercare -almeno- di arginare il male: evitare guai peggiori, in attesa di tempi migliori. Un bravo giocatore di poker sa giocare al meglio, anche quando il sorteggio delle carte, in quella mano, lo ha penalizzato. Il generale tedesco Kesselring ha dimostrato -sul finire della II guerra mondiale- come sia possibile gestire, in modo sorprendentemente efficace, anche un’inevitabile e graduale ritirata. Il fronte tedesco è crollato altrove, non in Italia.
Thomas More, che ha unito alla prudenza/saggezza politica anche il coraggio, ci rimise la vita; e, forse anche per questo, è oggi patrono dei politici. Per analogia, in momenti di crisi, è molto facile vendere la propria azienda o svenderne “i rami secchi”; ci sono però anche imprenditori, nonché proprietari di azienda, che preferiscono rimetterci di persona, ma continuare a governare la propria azienda, cercando di salvare il posto dei propri dipendenti e superare insieme la congiuntura sfavorevole; o almeno, tentare di farlo. Fanno pensare alla distinzione evangelica tra buoni pastori e mercenari.
Infine le virtù personali sono sempre necessarie, non solo ai cittadini -prima ancora di regole adeguate-, ma anche nel variegato mondo del lavoro. Varrebbe la pena indagare, se vi sia anche un patrono degli economisti. Pare che vi sia e sia addirittura un apostolo, san Matteo, che forse ci insegna proprio quello che teorizzava Aristotele: un ritorno, una conversione al fine naturale dell’economia (concorrere al bene comune, sotto l’egida della politica), rinunciando alla “economia commerciale” degli individualisti (i pubblicani, che ricevevano dai Romani l’appalto sulle tasse, facevano abitualmente “la cresta”). Resta però da chiedersi, allora, come mai Cristo abbia affidato a Giuda, e non a Matteo, la custodia della cassa…